La frastagliata morfologia del costume, del linguaggio e della storia nella terra di Marche

“L’ Italia, con i suoi paesaggi, è un distillato del mondo, le Marche dell’Italia. Qui abbiamo l’esempio più integro di quel paesaggio medio, dolce, senza mollezze, equilibrato”. Così, Guido Piovene, nel suo “Viaggio in Italia”.

Dilatare il concetto di Piovene non è facile perché non è facile definire questa regione. Terra di confine, di demarcazione fin dai tempi dell’impero carolingio: Marche dal germanico “Mark”; cerniera, congiunzione tra nord e sud.

Una regione al plurale, una discendenza storica prima ancora che geografica. La geografia disegna la regione, a mezzo d’Italia, sul versante adriatico, come un pettine con il dorso poggiato sulla catena degli Appennini e i denti verso il mare: su questa direttrice piccole valli e dorsali collinari su cui antiche città e paesi puntano in cielo torri e campanili, a simbolo della potestà laica e religiosa.

La storia, scritta quasi sempre da forestieri, è stata assimilata con pazienza e serena accettazione. Le grandi vicende l’hanno toccata di striscio. Il protagonismo nelle Marche è discreto, sommesso, senza voli sonori. Senza retorica. La regione è una unità amministrativa protetta dal picchio. Il picchio, l’uccello sacro agli antichi piceni, non ha però volato mai oltre l’Esino.

Ancora la storia: le frantumazioni del potere territoriale, affidato a marchesi, duchi, vescovadi e congregazioni, hanno sollecitato invenzioni di leggi e statuti, di regolamenti comportamentali e, in una parola, di civiltà originalissima.

Autogestione e autosufficienza in tutto, fino alla espressione più vistosa e resistente della mezzadria in cui il lavoratore della terra non era, come altrove, specie nelle estensioni del latifondo, servo del padrone, ma suo socio, con un piglio manageriale che lo vedeva attore nelle contrattazioni più importanti.

Ecco allora il rapporto dell’uomo con la terra dove si ravvisano i segni di un amore infinito; il paesaggio rurale è disegnato dall’uomo: le geometrie policrome delle coltivazioni accendono squarci pittorici di grande suggestione, i filari sfruttano l’andamento delle colline, le querce sono piantate sui fossi e sui versanti a delimitare confini e possessi. Poi la vigna, l’orto odoroso, l’uliveto e lo spazio destinato alla rotazione di cereali e foraggi.

Nel mezzo della terra, la casa, la casa del contadino, ampia, sempre funzionale, per uomini e bestie.

La stalla sotto la camera del vergaro, il capofamiglia, con il duplice intento di rubare un po’ di calore d’inverno e per un controllo a vista del patrimonio domestico. Nella camera c’era un mattone estraibile, sul pavimento. Ogni lamento veniva avvertito con trepidazione e si correva ai ripari. Poi la cucina, ampia, luogo di aggregazione del nucleo, nella recita democratica sulla strategia da adottare nella conduzione degli affari e nei rapporti con il mondo oltre il confine del campo.

Ingegno e saggezza in una terra d’armonie e d’equilibri.

Qui ancora si vuol dire si, il compromesso viene bandito perché equivoco. Il vicino è la forza lavoro di scambio inventato molto prima del cooperativismo sociale. Le mode passano senza lacerazioni, a vincere è la saggezza di sempre.

Può sembrare esercitazione letteraria questo idillio rurale cantato dai frettolosi viaggiatori che fermano l’attenzione sulla pelle di questa terra.

L’uomo, smessi i panni del contadino, si è fatto imprenditore, attingendo alle antiche regole dei comportamenti rurali: serietà, parsimonia, anche una sorta di pudore. Diventato imprenditore il vecchio contadino non si è stupito dei suoi successi, non si è montato la testa, anche quando indicava, forse senza saperlo, la “via adriatica allo sviluppo economico”.

I miti sono destinati a tramontare presto. L’oasi felice non esiste più, perché non c’è l’oasi nel composito mondo nazionale. Ma qui al progresso per forza non è stato immolato nulla di umano. Per combattere l’alienazione e la squalifica dell’individuo venne inventato il part time farming, per non sradicare l’operaio dalla terra dei vecchi e dagli affetti più gelosi. L’anacronismo è solo apparente e bisogna stare attenti ai luoghi comuni: questa è terra di certezze guadagnate pian piano. Anche negli anni dello sviluppo industriale, attorno agli anni ’60, l’uomo è stato presente a se stesso.

C’è stato uno squilibrio del territorio, è vero, il dosaggio abitativo nel territorio è stato scompensato: le Marche pendono verso la marina, ma i traumi non sono stati vistosi o sofferti. La dimensione lirica del paesaggio e l’aristocrazia del pensiero si avvertono ancora in collina, nei centri di antica cultura: Camerino, Urbino, Macerata, Ascoli, Fermo. L’industrializzazione è scesa a valle e sulla litoranea, sulle più agili vie di comunicazione approntate in questi anni.

Rammarico per la scomparsa dell’artigianato: vecchie botteghe di sudore e miseria, si, ma la fantasia vestiva d’arte la creta, i rami battuti erano belli come l’oro, i birocciai davano al carro la bellezza della diligenza e la robustezza del caterpillar. Le terrecotte di Fratterosa, se non avevano le pretese delle elaborate maioliche durantine, erano piatti per la mensa di tutti i giorni, pentole e tegami da cucina. Poi venne la plastica inodore e i cocciari non ci sono più. A Serravalle del Chienti, a sud ovest della regione o nella fascia appenninica in territorio pesarese, si esercitava l’arte povera del carbonaio intento a carpir legna di quercioli e avellane, attento sulle cotte di fuoco ad evitare incendio al bosco.

Sulla montagna ascolana, a 700 metri, Force è patria di ramai, ma battere e lucidare il rame è impresa in disuso. Furono gli zingari ad insegnare il mestiere del ramaio alla gente di qui. Ma di certo esistevano maglio e fonderia sulle rive dell’Aso fin dai tempi dei monaci farfensi secoli e secoli fa. Resistono ancora i fisarmonicari di Castelfidardo, ma l’elettronica soppianta l’uomo anche nella invenzione dei suoni.

Ma queste considerazioni sono forse tentazioni della nostalgia. Quando la vita dell’uomo era scandita dal calendario, dal ciclo sempre nuovo delle stagioni.

L’appuntamento con una storia irrinunciabile viene rievocato nei giochi d’estate sui fondali di mattone dorato di palazzi e logge con la musica squillante delle chiarine o quella più accattivante delle bandine con majorettes dai lunghi pennacchi bianchi: vessilli e gonfaloni, sbandieramenti e battimani, cavalli bardati con damaschi e dame gentili coperte di broccati e guerrieri, suoni e colori nella magia del tempo.

Suggestioni di vicende passate, dal medioevo al rinascimento, storie d’amore e cruente invasioni.

La partecipazione è sentita: i rioni in contesa sono microcosmi di una rivissuta autonomia; si riaccendono i contrasti corporativi di un’epoca decisamente perduta. C’è solo il gusto di far rivivere un mondo che il sospetto del benessere e del consumismo vorrebbe cancellare dalla memoria.

Si può appena accennare alle più celebrate rievocazioni della storia: dal fantasmagorico torneo cavalleresco della Quintana ad Ascoli Piceno al corteo storico dei 500 a San Severino, dalla Cavalcata dell’Assunta a Fermo al palio della rana di Fermignano, dalla venuta dei Piceni a Monterubbiano alla giostra dell’anello a Servigliano. E ancora, il cavallo di fuoco a Ripatransone, il ritorno degli esuli a San Ginesio, il palio del Serafino a Sarnano, la caccia al cinghiale e cena storica a Mondavio, la cacciata, antico gioco del pallone col bracciale, a Mondolfo.

Feste per esorcizzare il tempo presente, nelle quali giocano un ruolo non secondario la buona cucina e il vino.

Ma ogni centro ha la sua festa d’estate dove il forestiero non è mai un intruso. Il senso del margine (Mark) ha dato alla gente il senso del rispetto e dell’ospitalità. L’isolamento della storia ha cucito impensate aperture che, se hanno dato spazio alle correnti dell’arte delle vicine regioni, hanno altresì espresso una poderosa originalità di espressioni autoctone. Dal tempo di Roma con tracce vistose di anfiteatri e archi un po’ dovunque.

L’epoca romanica consegna Santa Maria di Portonovo, a specchio del mare, quasi un faro ai naviganti, San Vittore delle Chiuse, proprio all’ingresso del fantastico complesso ipogeo di Frasassi, San Ciriaco e Santa Maria della piazza ad Ancona, il Battistero di Ascoli, il candido Duomo di Ascoli, l’anconitano palazzo del senato. Santa Maria di Chiaravalle testimonia l’euritmia del gotico e cento altre chiese salde, articolate, tanto diverse per moduli architettonici e per ampiezza, dove ad operare in affreschi e in polittici viene chiamato il fior fiore degli artisti: da Firenze, da Siena, da Venezia, da Bologna, dalla Romagna. Sono i riminesi a firmare, in pieno ‘500, il cappellone stupendo di Tolentino.

Poi il rinascimento, dal trionfo del santuario di Loreto col Sansovino, Sangallo, Bramante, Laurana, Pontelli alla reggia urbinate di Federico da Montefeltro: “acropoli dello spirito” che aggrega attorno al duca, assieme ai più “eccellenti che in Italia si trovassino”, la schiera magnifica di Piero della Francesca, Paolo Uccello, Menozzo da Forlì, il Pisanello, Francesco di Giorgio e Luca della Robbia, Luca Signorelli, Tiziano, Sebastiano del Piombo. Con questi sommi le Marche hanno vissuto la più intensa stagione della propria vicenda artistica.

Ma oltre i centri di culto e le residenze di principi e duchi, ogni centro, anche il più piccolo, ha il suo tesoro d’arte.

E’ la storia municipale che ha consentito una ricca e decentrata produzione: ogni governatore o priore, il piccolo senato e la corporazione hanno preteso di dare alla comunità il segno dell’arte da trasmettere in eredità. Anche questo è accaduto perché sul territorio non c’è mai stata città in regime egemonico.

Ancona è capoluogo di fresca investitura. La sua posizione e la sua origine la staccano quasi dal contesto regionale. Volta le spalle al resto delle Marche, si diceva una volta. In effetti il suo sguardo e i suoi interessi sono sul mare. Le hanno negato il titolo di Repubblica marinara, ma la sua storia ha camminato sul solco veneziano con una indomita autonomia; Atene e Bisanzio, la Dalmazia e l’Egitto, la Siria e le terre iberiche ospitavano i suoi mercanti e i plenipotenziari, aveva zone franche in tutto il Mediterraneo.

Ancor oggi è il polmone di approdo più importante del medio Adriatico. Ancona, da “ancon”, gomito dei Dori siracusani fondatori della città, gode di un indubbio fascino. Nel bell’arco romano di Traiano, nei portali delle chiese in cui prevale il gusto dalmata e il gotico fiorito di Venezia, nel Duomo, nelle altre chiese, nei musei, negli antichi palazzi,  Ancona recita un ruolo di nobile e distaccata capitale della regione: nel grande abbraccio del mare c’è l’anima indolente, nobile e popolana, di una secolare sedimentazione di incroci levantini distinti, ancora, nella parlata.

Geograficamente Ancona si colloca nell’unicum mare monte, negato invece alle altre città adriatiche, oltre Trieste. La piattezza della costa è qui interrotta dal monte Cònero, area di insediamenti fin dalla preistoria. La piccola insenatura è vigilata dal colle Guasco su cui i Dori innalzarono le mura in conci di tufo e il tempio dedicato a Venere Euplèa protettrice dei naviganti, i cui resti sono ben visibili sotto l’impianto del romanico tempio di San Ciriaco.

Attendono interventi energici i resti di un ampio anfiteatro romano a ridosso del Guasco. La città antica ruotava sull’asse mare collina e tale è rimasta fino alla fine dello scorso secolo. La città nuova ha percorso i suggerimenti d’obbligo forniti dalla conformazione del terreno circostante. Ancona merita una visita. Ha i pregi di una grande città senza le afflizioni che mortificano la qualità della vita dei grandi agglomerati urbani.

Spente le ambizioni marinare, la città capoluogo si apre al colloquio con il resto della regione. Nella intesa con la minuta marca sparsa nelle piccole valli, sui crinali collinari, sulla costa sta il domani dell’intera regione, la cui visita termina qui, in questo frantumato racconto a contrasti che vuol sottendere invece una unitarietà di intenti sorretta dal sentimento e dalle buone intenzioni.

Massimiliano Montesi   (Fonte: Terenzio Montesi)



Massimiliano Montesi
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