La donna marchigiana in età preindustriale (2)

(…) La casa non è mai centro abitativo e basta, ma anche unità aziendale: infatti il suo impianto tipologico è polifunzionale.

La grande cucina è salotto e sala da pranzo, centro di aggregazione familiare e sede degli incontri decisionali. Ogni nucleo familiare ha una camera, ma il sancta sanctorum è la camera della vergara, dove non possono entrare né i figli né tantomeno le nuore.

In essa ci sono tutti i segni del potere: le candele della candelora, il fucile, l’ombrello, il bastone, le casse dei corredi, la corona del rosario, il lume ad olio e gli altri tesori. Sul piancito il mattone estraibile o la botola per il riscaldamento dalla stalla sottostante e per un agevole controllo sulla salute delle bestie.

“La manza non ruma più, gnarria chiamà lu maniscargu, sta con l’occhiu largu”

La casa, nel processo di appoderamento iniziato nel 1400, non risolve più i problemi che sorgono verso la seconda metà del ‘700.

Una ridotta dimensione dei campi coltivati assegnati a una popolazione rurale, nel frattempo molto cresciuta, rimanda a una ricerca di risorse alternative che vede ancora la donna sotto il basto della fatica. La pratica della bachicoltura obbliga la trasformazione della casa con la sopraelevazione del corpo centrale per alzare la bigattiera e nel contempo carica la donna di un lavoro duro nella gestione dell’impianto a cominciare dalla raccolta della foglia di gelso, ai compiti della muta del baco e alla relativa gestione della crescita fino alla cernita dei bozzoli.

Ma alla donna competono anche altre incombenze, oltre al rutinario lavoro del campo e della casa.

Il telaio aveva, ad esempio, una stanza tutta per sé, in genere il retrocucina. Sul monumentale attrezzo, all’orditore, al pettine, al filarello, al depennatore, alle càlcole e alla navicella si dovevano alternare tutte le femmine di casa.

Ma siamo ancora lontani da quella forma protoindustriale che sarebbe venuta molti decenni dopo.

Per l’agricoltore mezzadro (perché diffusissimo era l’istituto della mezzadria e rara la piccola proprietà) gli introiti alternativi erano relegati all’incremento della stalla, agli impianti apiari, all’ingegnosità applicata all’attrezzeria agricola.

Al di fuori dell’attività agricola, la donna marchigiana ha avuto un ruolo di forte incidenza sul nucleo familiare ma anche sulla società del contesto marinaro. Basti pensare alle “portannare”, le donne della marineria di Portorecanati.

Erano loro a gestire casa e affari, a stabilire la compravendita dell’abitazione e la data di nozze di figli, maschi e femmine.

Andavano a vendere il pesce, spingendo carretti pesantissimi, fino a Loreto, Recanati, Castelfidardo. Gli uomini pensavano al mare e all’osteria.

Tenaci, sparagnine e decisioniste, le portannare hanno fatto il paese.

Più sfortunate erano le lavandaie del Chienti, quelle che Luigi Bartolini ha immortalato nelle cento incisioni graffiando le lastre con furia e amore.

Le puzzolenti concerie del Chienti hanno tolto i colori della gioventù alle ragazze casanolanti che non avevano avuto la grazia di un campo da coltivare per il padrone: era il destino delle mondine che cantavano per consolarsi.

Non meno duro il lavoro delle lavoratrici delle filande, le sottiere e le mezze maestre, le mani nell’acqua quasi bollente per dieci/dodici ore al giorno, toccando i bozzoli molli e cotti nell’acqua del macero, sfregandoli con una spazzola e cercando i capi delle bavelle dei bozzoli. Un lavoro massacrante.

Sono state forse le prime salariate della regione, ma ad un prezzo altissimo. Malmaritate, sfruttate, calpestate. Una filandara suggerisce all’amica: quando arriva il treno, corri, corri, ma non per salirvi e fuggire, ma per buttarti sotto le rotaie.

Il marito della donna di filanda solitamente non lavorava, abitava in osteria con le carte della briscola in mano, rubava la paga alla moglie e, ubriaco, la bastonava. Tutte le sere.

“Io vado alla filanda, prendo una lira al giorno, la sera quando torno non ho niente da mangià. Viè a casa mio marito, i soldi porta via, e tutti all’osteria me se li va a giocà”

Situazione analoga per le sigaraie di Chiaravalle. Ma questa cittadina della bassa vallata dell’Esino ha avuto anche l’affermazione del lavoro continuativo e una progressione migliorativa delle condizioni ambientali.

Orgoglio per l’autonomia economica della donna e indipendenza comportamentale anche per l’alto numero delle occupate. Ma c’è una figura emblematica della condizione femminile nel contesto regionale: quella di Maria Montessori.

Prima laureata in medicina tra le donne italiane nel 1896 e specialista nel recupero dei bambini subnormali. La più importante pedagogista del mondo: l’uomo è il prodotto finale dell’operaio bambino.

Massimiliano Montesi (da un testo di Terenzio Montesi per i Lions di Civitanova Marche)



Massimiliano Montesi
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