Carnevale: quando tutto si può

Nel mutevole calendario dei secoli il carnevale è stata la festa trasgressiva e liberatoria, laica, con agganci ancestrali ai miti precristiani; un percorso collettivo che attraversa millenni. Le feste invernali dei Saturnali allentavano i freni delle convenienze comportamentali, permettendo eccessi di ogni tipo, specie a tavola e nei giochi del mascheramento.

La maschera è lo strumento della negazione individuale che priva d’identità il soggetto che si nasconde favorendo il disinvolto scambio dei ruoli: l’uomo si veste da donna, il povero da ricco, l’imbelle da guerriero e viceversa. Il gioco serve a sfuggire la regola che obbliga e opprime.

Nelle Marche, a grandi linee vivono due tipi di carnevale: quello con il pubblico spettatore e quello con il pubblico attore. Il primo trova nel carnevale di Fano la sua più compiuta espressione: il pubblico segue la sfilata dei carri come se fosse ad una rappresentazione teatrale. Il secondo, senza codici preconfezionati, si accende spontaneamente e sfocia in una inverosimile baldoria, come ad Ascoli, Offida e Castignano. In alcuni paesi la collettività si processa attraverso allusive requisitorie al pagliaccio di carnevale con accuse molto spesso vere, che portano alla condanna con conseguente rogo in piazza. Il pagliaccio è la società paesana di cui passano in rassegna le malefatte di un anno. È un rito che sopravvive a Staffolo, e non solo. L’appropriazione del disincanto carnevalesco deve durare il più possibile tanto che si dice …”dopo Natale è sempre carnevale“.

A San Paolo di Jesi, nel giorno clou del carnevale, viene proclamato il vincitore di una gara singolare: vince il premio chi ha fatto registrare, tra Capodanno e giovedì grasso, la sbornia più solenne con la complicità del verdicchio, vanto del paese. Il trofeo è una damigiana di 54 litri con il miglior bianco appena svasato.
E siccome a carnevale ogni scherzo vale, capita, talvolta, al malcapitato vincitore di trovare la damigiana piena d’acqua. Un insulto doppio. Anche perché i dolci di carnevale vogliono il bicchiere vicino.

Così che scroccafusi, castagnole, frittelle, sfrappe, cresciole e l’infinità di varianti in forme e sapori coinvolgono, nella goduria, un plotone di boccali.
S. Giuseppe frittellaro, dice un proverbio, perché la festa del Santo è in coda alle litanie carnascialesche.

Altro detto suona bene: “Il giovedì grasso ogni padella fa fracasso”. Altro santo che viene ricordato il 14 febbraio è S. Valentino che “a primavera sta vicino”. Una accalorata esortazione, non proprio devozionale, dice: “carnevale non mi lasciare che non posso digiunare, quaresima pizzuta perché ci sei venuta; le verdure e le spinace son cose che non mi piace.
Galline e cappù mi piacciono di più”.

Tra Corinaldo e Ostra Vetere, ma ormai l’usanza è scomparsa, era molto sentito e praticato il canto rituale di questua della “sega vecchia”, a mezza quaresima, per dimezzare così la penitenza delle privazioni e delle rinunce: segare la quaresima a metà. Nel momento della sosta sull’aia e prima delle sostanziose richieste di uova e salumi, veniva simulato il taglio di un fantoccio vestito da vecchia, con gobba e naso finto, poi il canto: “sega sega mamma riccia la pagnotta a la salsiccia; la salsiccia me la magno la pagnotta la sparagno”.

Ma la canzone più sentita nel periodo di carnevale è quella appartenente all’area di confine tra le province di Ancona e di Macerata e la dice lunga sulle condizioni di vita della gente rurale:

Tutti li santi giorni ce tocca a fadigà,
ce sgappa mazzi e corni, ce stenta lo magnà.

Ma pe’ ‘na volta che ci si arriva, viva l’allegria.
Via viva carnevà, viva viva lo magnà.

Oggi poi ce la ciccia, ce lo pane, salame, salciccia,
ce lo pà, ce lo vì, il prosciutto, lu cotechì.

Viva viva carnevà, viva viva lo magnà

Prosit!

Massimiliano Montesi (fonte: da un testo di Terenzio Montesi per il bimestrale Next di Boxmarche – febbraio 2004)



Massimiliano Montesi
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