La donna marchigiana in età preindustriale (1)

Il biroccio è pronto.

Sull’aia i ragazzini fanno festa. I buoi mal sopportano gli addobbi e i fiocchi del paludamento.

E’ giovedì, il giorno della stima. Il carro è colmo di lenzuola, asciugamani, coperte e tutta la biancheria tessuta, curata, cucita da quando lei, la sposa, era ancora bambina.

La sposa.

La donna marchigiana non è stata mai comprata, come succedeva in altre parti d’Italia, con due coppe di terra o dieci pecore o cento scudi. Anzi. La donna portava, o meglio “tirava”, come si diceva allora.

L’acconcio della sposa, con il comò e la cassa di noce, veniva minuziosamente catalogato dalla vergara e preteso con puntiglio dal promesso. A tal proposito c’è una ingenerosa e impietosa relazione su caratteri e costumi del contadino del dipartimento del Musone, Macerata ne era il capoluogo, inviata al Prefetto e ai Potestà per la compilazione del rito da recapitare alle autorità del Regno Italico a Milano. Siamo nei primi anni dell’800. L’Italia s’ha da fare ancora.

Giacomo Leopardi, nelle annotazioni sui costumi della campagna, riporta più volte le tenere confidenze e innocenti scorci esistenziali delle donne recanatesi: “Faccete alla finestra Luciola, decco che passa lu regazzu tua, che porta un canestrello pieno d’òa, mantatu con le pampine dell’ùa”.

E il giovinotto che le chiedeva un bacio, traduceva il diniego con “se non me lo voi dà, padrona sei”.

Sempre dallo Zibaldone. Su questa misura possiamo considerare quanto siano cambiati i tempi.

Ma c’è ancora di più: l’arditezza del canto, il doppio senso e l’allusione sconfinavano spesso oltre il consentito. Ma la chiusura del microcosmo su cui si muoveva l’esistenza non consentiva voli.

La donna capoccia o vergara poneva davanti la camera della neo sposa una salvietta e si metteva in attesa: quando la sposa giungeva alla soglia si inginocchiava e sopportava l’interrogatorio. “Porti la pace o la guerra nella mia casa? – La pace – E la suocera: la pace ce porti e la pace certroi”.

Poi la sposa riceveva il bacio benedicente.

Quando la nuora rimaneva incinta era circondata dalle cure affettuose degli anziani. Almeno nella maggior parte dei casi, perché si contano anche episodi di valore contrario. La donna doveva dare alla famiglia una nuova forza lavoro: quindi doveva evitare l’attraversamento di corsi d’acqua per scongiurare emorragie, di mettere matasse di filo o aghi intorno al collo, di scavalcare corde (il nascituro poteva avere il cordone ombelicale attorcigliato al collo), non doveva assistere all’uccisione del maiale, non poteva passare sopra attrezzi agricoli. Il pronostico sul sesso del nascituro avveniva spezzando l’osso sternale di un pollo. All’insorgere dei primi dolori si doveva mettere a letto.

Accorreva la madre che, con l’aiuto di una donna esperta, la mammana, l’aiutava a partorire.

Se il piccolo era avvolto nel sacco placentale, era nato “con la camicia”. L’acqua con cui era lavato il neonato veniva gettata in una buca scavata sotto una pianta di fico nero perché le streghe temevano tale albero.

L’anfantata, puerpera, passava la quarantena mangiando minestrina e un quarto di gallina al giorno.

Pancotto e pane abbrustolito inzuppato nel vino e il prezzemolo tritato facevano aumentare la quantità di latte. La biancheria del neonato, lavata e stesa, doveva essere ritirata prima dell’Ave Maria per evitare che la bagnasse la guazza, amica delle streghe.

Pelo di tasso, cornetti rossi, pezzettini di cero pasquale, un frammento di stola del sacerdote e un pezzetto di palma benedetta erano il repertorio contro il malocchio.

Svezzato il figlio, la donna doveva andare al campo: vanga, zappa, rastrello e falce erano gli attrezzi normali del suo beauty case.

A casa rimane la vergara che riassetta la cucina e le camere, prepara il pranzo e la cena, guarda i più piccoli. Nel contempo ha la direzione dell’abitazione e del suo spazio vitale: il pollaio, lo stipo del maiale, la piccionaia, la conigliera, la gestione delle uova con cui disimpegna il piccolo commercio per provvedere alle spese extra, vestiario, scarpe, baccalà, aringhe, sale, fiammiferi.

Talvolta le famiglie medie contadine contavano 18 o 20 persone: l’imprenditorialità della vergara era una necessità di vita.

E se il podere aveva colture promiscue per garantire i generi di sussistenza, grandine permettendo, alla donna era affidata la risorsa orto che svolgeva un ruolo di approvvigionamento alimentare di vitale importanza.

La forza della vergara risiedeva proprio nell’irrinunciabile piglio gestionale, adottando una ferrea quanto saggia utilizzazione del reddito.

Dalla loggetta della scala esterna, il discorso sulla casa rurale meriterebbe un’intera trattazione: lei, la vergara, controllava aia, orto, animali e campo, con gli uomini e le cose presenti. (…)

Massimiliano Montesi (da un testo di Terenzio Montesi per i Lions di Civitanova Marche)



Massimiliano Montesi
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