De Guluppa

Titolo alla latina, ciceroniano. Guluppa, termine ignorato dal paludato lessico della lingua pura. È un termine vernacolare contadinesco della fascia marchigiana, e non di tutta. Ne vorrei dissertare (sic) per un lampo di pagina. Per due ragioni.

La prima: in una veloce passata su un vocabolarietto anconetano-italiano, pubblicato da Luigi Spotti a Ginevra nel 1929, ho trovato la “strana” parola con una indicazione inequivocabilmente nostrana, senigalliese (sen), “gluppa“, una insignificante contrazione di guluppa. L’altro motivo, e un po’ mi intriga, è che per guluppa si intende imballo, involto, involucro, da avvolgere o, meglio, da avviluppare. Nella parlata senigalliese, e per tutta la stecca del Nevola, gluppa. L’antifona è chiara e sonora. La guluppa è un contenitore polifunzionale, cioè modellabile alla forma del contenuto (…), è di stoffa robusta; una sorta di fazzolettone, di colore blu o turchino. Con linee sottili rosse o bianche, ma anche biancorosse per spezzare il monocolore e illeggiadrire, con il disegno a scacchi, il gran quadrato.

Era, ed è, o potrebbe essere il fazzoletto della spesa, riciclabile con una energica lavata alla fonte di tutti e passato indenne da madre in figlia. Parte del patrimonio, da custodire nella cassa di legno dei tessuti e, spiegato, alla bisogna per gli usi più svariati.

Ho rivisto il fazzoletto della guluppa di recente, alla Mostra Mercato del tartufo di S. Angelo in Vado, area metaurense; conteneva, in gran figura, il preziosissimo Tuber Magnatum Pico, il tartufo bianco di novembre (3-4 mila euro al Kg.) Una volta invece, la guluppa classica, rintracciata nelle pagine della letteratura popolare, era quella che conteneva le povere cose che il premuroso innamorato portava alla promessa in prossimità delle feste (…), specie a Natale.

Il fazzolettone, di rigatino pesante, in cotone o misto lino o canapa, spesso tessuto in casa ma anche comprato alla Fiera di Senigallia, riempito con quello che “ammanniva” la “vergara“, con qualche preziosità aggiunta furtivamente dallo spasimante. Presi i quattro angoli, che venivano intrecciati al centro e legati a nodo, il fazzoletto diventava contenitore, ad assetto variabile, in obbedienza a quello che c’era dentro.

Riciclabilissimo. Cosa c’era dentro la “guluppa” d’amore? Di solito le cose buone che offriva la casa. Per gli extra, o le stravaganze, quello visto alla Fiera e comperato mesi prima. L’immagine che dà sostanza al gesto del dono è quella che ha descritto Giacomo Leopardi nelle “Ricordanze“, “…van gli amanti recando alle fanciulle…” Se quello di lui era un buon partito nella guluppa ci poteva star bene anche una fila di corallo con le piastrine d’argento o una spillina di perle o l’anellino.

Ma per questi regali vertiginosi bisognava essere proprio seriamente impegnati e quindi nozze in vista, perché un dono di tale portata sanciva l’ufficialità della promessa. Normalmente il dono, sempre pegno d’amore, era molto più semplice. Nella guluppa ci si poteva trovare fichi secchi (non adatti per le nozze), ma anche lonzini di fichi macinati e insaporiti con noci e mistrà e amalgamati con la “sapa” e poi legati con una protezione di foglie di fico. Di buon augurio erano i confettini con un’anima di cannella e l’uva passa, le castagne per sostenere le chiacchiere sull’arola, ma anche mandarini e arance, i lupini a S. Giuseppe, le uova dipinte a Pasqua, la pizza al formaggio.

Nel periodo estivo molto gradito e utile il cappello di paglia di Montappò, a larghe falde, ingentilito da nastri colorati e profumato con i rami di spighetta. Nella guluppa poteva capitare anche una boccettina di acqua di colonia e un pettine. Ma in genere si portava il regalo seguendo i prodotti stagionali che, nell’autarchia rurale, la vergara metteva da parte per la bella figura del figlio. Ma non c’era molto da “scialare”. Ritornando al “packaging”, pardon al fazzoletto, è bene rendere giustizia al contadino, laborioso e paziente, secondo una stereotipata cartolina, che piantava e curava lino e canapa (la donna era attenta al telaio), tanto da realizzare l’autonomia della impresa familiare, specie dopo il cataclisma napoleonico che aveva portato miseria e malattie.

Ma la fame era una costante anche dopo la “restaurazione“, se è vero che si è mangiato pane di ghiande fino ai primi anni del ‘900. C’erano almeno tre tipi di fazzoletto, importanti dettagli dell’abbigliamento e non solo: fazzoletto da testa, da spalla, da spesa. Il colore blu, riquadrato, era d’obbligo perché “…il rosso col turchino fa la figura del contadino…”, quasi un’uniforme, perché la gente di campagna doveva essere riconosciuta a vista.

Ma guarda un pò? Modificazioni della guluppa. I pastori e i frati da cerca avevano il modello a due posti, detto a bisaccia. Bis, a due sacche. Portato ad armacollo tanto da avere libere le mani, per recitare il rosario o per reggersi ad un bastone o menare sul groppone lanoso degli ovini riottosi e indisciplinati.

Per la guluppa e la bisaccia, il packaging è una… parolaccia. Ma solo per loro!

Massimiliano Montesi (da un testo di Terenzio Montesi per il Periodico Bimestrale di BOXMARCHE “Next idee & packaging” – Dicembre 2003)



Massimiliano Montesi
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