Felici, il medico delle erbe

Riscopriamo Costanzo Felici da Piobbico, botanico e medico del ‘500 tra i primi a divulgare l’importanza delle erbe a scopo terapeutico.

Dopo la scoperta delle Americhe, si attiva un’attenzione a tutto campo nei confronti delle erbe da usare in cucina e, più, in medicina, come se dalle “Indie”, oltre all’oro e all’argento, potesse arrivare in Europa ogni panacea per i mali e le miserie dell’uomo.

È in questo contesto che Costanzo Felici di Piobbico esplora la geografia natia, Montefeltresca e Riminese, per riferire al naturalista Ulisse Aldovrandi, stimatissimo Rettore dell’Archiginnasio, notizie su arbusti, piante, uccelli, minerali e quanto potesse suscitare interesse di chi era lontano dalla terra di confine, poco nota e poco frequentata, tra Romagna e Marche.

Osservatore attento e curioso, poteva fornire indicazioni di prima mano su uomini, animali e cose, vivendo a diretto contatto con la gente e per il mestiere di medico e per le origini e ceto di cui godeva a Piobbico e dintorni. Con devozione, ma anche con confidenza, si firma ‘servitore e compare amorevole’, scrive all’Aldovrandi il 27 luglio 1563: “… in questi nostri monti nasce l’aquila regale o principale, di grandissimo corpo, di piuma negra, di acutissimo vedere, che vive solo di rapina e di canne caudata e fresca…”. Pare di vederla!

Altra lettera allo stesso destinatario porta la data del 1584, parte da Rimini: “… in codesti nostri paesi molto spesso si pigliano e ammazzano dei lupi…”.

Il Felici fu anche storico preciso e appassionato, pur mirando principalmente alla ricerca naturalistica. E dice: “Rubando il tempo a studi più gravi, aveva atteso alla lettione dell’Historia, per proprio utile e piacere”.

Uomo del ‘500.

In questi ultimi tempi si è cercato di rivalutare l’opera botanico – naturalistica del Felici, grazie alla passione di Delio Bischi, piobbichese anche lui (basti ricordare la sua reinvenzione del guado, il colorante vegetale blu per i tessuti e la decifrazione delle macine di pietra rinvenute tra i casolari sparsi; Bischi era un veterinario dai molteplici interessi), ma grazie anche agli apporti scientifici di un gruppo di studiosi urbinati tra cui Piera Scaramella Petri dell’Istituto di Botanica dell’Università di Urbino, che ha fornito ulteriori contributi alla conoscenza dell’opera Feliciana con incisività e rigore e con taglio analitico, tecnico e scientifico sull’intero corpo delle lettere sulle insalate.

Altro studio pubblicato di recente è quello di Giorgio Nonni, sempre dell’Università urbinate, con le preziose sessantuno lettere dell’Aldovrandi, in cui il Felici non elenca soltanto ma stende minitrattati sulla specificità dei ritrovamenti, contribuendo così ad una maggiore conoscenza della cultura delle province marchigiane dell’epoca. La scoperta delle “Lettere sulle insalate” e della “Lectio nona de fungis” in latino, in fogli autografi, avvenuta scandagliando il Fondo Aldovrandiano giacente nella Biblioteca dell’Università di Bologna, ha svelato un mondo che si credeva dimenticato.

Anche perché l’Aldovrandi aveva dato alle stampe due pubblicazioni, “Il calendario, ovvero Ephemeride historico”, l’anno, i mesi e i giorni per sottolineare le imprese degli uomini degni di particolare menzione. L’altro testo, edito sette anni dopo, è in aggiunta ad una traduzione stampata in Rimini nel 1584 di un trattato sulla fauna scandinava, dal titolo “Del lupo e virtù sue, e proprietà sue, così del tutto come d’ogni sua parte”.

Da studiare ancora molte carte feliciane come lo “studio sulle insalate e verdure alimentari”, “lettere sulle olive e sul loro uso commerciale”, una lezione di micologia e altri inediti di disparato argomento.

Le “Lettere”, un cardine della letteratura naturalistica, ci elencano un catalogo di erbe commestibili, di cui si è persa ogni traccia, per quel dissennato intervento sui terreni votato alla monocoltura e all’abbandono dei campi.

Oggi, per vedere alcuni tipi di verdure, che furono medicina e alimento, occorre cercarle negli orti botanici. Erbe al museo, si deve dire. Però i sapienti che parlano in televisione dicono che bisogna mangiare frutta e verdura. Ma quale verdura? Non quella che cresce spontanea sui campi da sempre o quella degli orti curati dalla “vergara”, ma quelle cresciute intensivamente, coltivate, annaffiate, concimate, trattate, salvate dagli insetti e dalle malattie, quindi curate, quindi malate. Verdure d’allevamento; l’unica che arriva, costosissima, sulle nostre mense è questa, omologata nei sapori, differenziata nella forma e nei nomi.

Peccato! Costanzo Felici aveva impresso alla sua ricerca tutti i crismi della scientificità.

Ogni erba è stata chiamata per nome, in volgare e in latino, e, con acuta competenza, anche il ruolo da svolgere in cucina.

Un discorso a parte meriterebbe la “Lectio nona de fungis” che il medico di Piobbico ha consegnato agli studiosi, e non solo, sulle caratteristiche dei funghi, con estese e complete indicazioni sull’uso di cucina e sulle applicazioni terapeutiche per acquietare alcuni malanni.

Curioso il modo di raccontare i siti di allignamento e le forme, segno di una testimonianza diretta, come è curioso il riferimento storico con rimandi a certe usanze dei romani antichi che utilizzavano “il fungo” per sbarazzarsi degli avversari. Un’arma.

Bizzarra è la genesi del fungo ipogeo, il nostro tartufo bianco (Tuber magnatum Pico). Nasce dove hanno fatto l’amore i cervi, dove il terreno riceve il seme del maschio durante l’accoppiamento perché la femmina si sottrae all’impeto dell’assalto.

Questa spinta confidenza non aveva il supporto dell’osservazione diretta; tra l’altro il Felici non conosceva il tartufo. La storiella, come tante altre di seconda mano, non gli era parsa verosimile nonostante la citazione del grande Pietro Andrea Mattioli. Ma ampia è la descrizione di erbe e funghi del Felici che si potrebbe bandire un concorso tra i moderni chef che amano le vecchie ricette che l’abbondanza dei vegetali ci consente. Una interpretazione. Purché si cerchi nell’orto la bella verdura, ma quella sana e buona.

Questo per dire dell’attualità della ricerca di Costanzo Felici che dopo 400 anni attende il riconoscimento che merita.

Massimiliano Montesi (da un testo di Terenzio Montesi per la Rivista “Buongusto” – inverno 2003)



Massimiliano Montesi
massimilianomontesi@yahoo.it
1 Comment
  • Vincenza Di Maio
    Posted at 12:07h, 16 Giugno Rispondi

    La riscoperta del territorio è una ricchezza per la nostra vita. Bello quest’articolo.

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