Gioacchino, storia di un gran gourmet

Come Rossini interpretava i piaceri della vita: buona musica e buona tavola.

Un irriverente paradosso definisce Gioacchino Rossini un “gourmet” con l’hobby della musica.

Un passo scherzoso tra i tanti che hanno accompagnato il non sempre gaudioso intermezzo del Cigno di Pesaro.

Ma era ben vaccinato contro le impudenti favolette sulla naturale propensione alle seduzioni gastronomiche. C’è addirittura chi ha cercato di rintracciare le motivazioni lontane di quando Gioacchino andava a cantare nelle Chiese di campagna, con pranzo festivo nelle fornite canoniche e, sacrilegio, prime confidenze con il vino contenuto nelle ampolle della messa.

Aneddoti e relative varianti fatti circolare con la presunzione di stupire nei circoli parigini ma anche a Bologna e a Firenze.

Quasi sempre ripudiati per inattendibilità manifesta: “assurdità e invenzioni più o meno nauseanti”.

Si doleva alquanto, il Maestro, delle battutacce degli invidiosi perdigiorno che passavano il tempo a spettegolare da un salotto all’altro, non sapendo far altro.

Da molte fonti si hanno informazioni sulla condotta di Rossini a tavola, specie nella tavola della quotidianità. Il Maestro non era un ghiottone – mangione, ma sceglieva bene i suoi fornitori e i prodotti che giungevano in dispensa. Sapeva mangiar ben, che non vuol dire mangiare molto.

Le preferenze?

Basta nominarne due, anche perché la lista sarebbe lunga.

In cima a tutto tartufi e maccheroni. “Tu finirai per incendiarmi con le tue trifole; di quanti peccati di gola sei tu la colpa”. E rimproverava, con estrema benevolenza, il devoto fornitore ascolano, violoncellista ed esperto di tartufi e delle tenere olive di Ascoli.

E’ di un bottegaio parigino questa battuta: “se si intende di musica come di maccheroni, deve scriverne di bella roba”.

Gli amici francesi volevano convertirlo alle ispide ricottelle, a ripudiare la rosea mortadella o il festoso gorgonzola che mandavano, con gli sperimentati corrieri, veloci e sicuri, gli amici di Bologna.

Non l’avessero saputo i francesi! Anche se, di rimando, inutili furono i tentativi di Rossini per convertire i francesi al buon gusto italiano. Nel definitivo ritorno a Passy, nel 1856, è accompagnato da una consistente scorta di eccellenti vini e cibi da condividere con i sodali che lo attendevano. Aveva bisogno di un’energica ripresa dopo le fatiche del lungo viaggio e delle “nevrosi” che lo avevano fiaccato negli ultimi tempi trascorsi a Firenze. Voleva, e ci riuscì, far sua l’allegria consapevole e necessaria che si accendeva in cucina e a tavola con gli amici, perché la buona pietanza, come la musica, va consumata in compagnia.

Si può dire che l’armistizio tra le due linee di pensiero, la francese e l’italiana sulla prevalenza dell’una sull’altra, cucina italiana e cucina francese, sia stato stipulato nel 1903 quando il Presidente della Repubblica Francese, Emile Loubet, incluse nel menù della cena ufficiale, in onore del Re Vittorio Emanuele III, all’Eliseo, un timballo di anatra alla Rossini, tra le dodici portate.

C’è da dire che le pietanze ispirate da Rossini e dai personaggi delle sue opere sono tante almeno quanti i personaggi che animano, cantando, la scena; alcune vere, altre inventate, sulla scia della fama, in ogni senso, del Maestro.

Fino a dubitare della invenzione dell’eccelso Careme, che gli fu maestro di cucina, intento a preparare i piatti per i Rothschild, quando battezzava “Figaro”, il dolcetto di fine pasto, in omaggio al “Barbiere”.

Dichiarata la sorpresa invece di una storia vera scritta in una lettera indirizzata al contralto spagnolo Isabella Angelica Colbran, che Rossini sposò nel 1822, dopo il successo del “Barbiere di Siviglia” all’Argentina di Roma nel 1816: “ma ciò che mi interessa, ben altrimenti che la musica, cara Angelica, è la scoperta che ho fatto di una nuova insalata della quale mi affretto d’inviarti la ricetta…”.

La forza della ricetta, oltre ai succhi, oli, aceti, senape, pepe, era sostenuta dalla lattuga e, più, da copiose lamelle di tartufo. Buona? Buonissima. Era dedicata a un Cardinale che ricambiò con un’abbondante benedizione.

C’era una nutrita letteratura sulla accondiscendente propensione rossiniana ai richiami della buona tavola, anche perché le conviviali potevano essere descritte dai convitati, scrittori, gente di teatro, musicisti, nobili ai quali lo stesso Rossini, in genere, forniva le ricette (ma negò quella dei maccheroni a Dumas che con il piatto tipico di Napoli non andava d’accordo).

Il Maestro, anfitrione sovrano, si sentiva a suo agio nelle tavolate di Passy, piacevolmente convinto di essere, e lo era, al centro di ogni attenzione. Peccato non esistano documentazioni dal vero dei “sabati rossiniani”.

C’è da ipotizzare, con una punta di campanilismo, che la vocazione alla buona tavola e la esclusiva qualità delle materie prime, unite al senso dell’ospitalità, discendano da quell’amabile e gioconda geografia che ha i suoi vertici in Pesaro e Bologna, e se il musicista si è dichiarato bolognese d’elezione, a Pesaro ha lasciato i suoi beni e certamente il cuore.

Massimiliano Montesi (da un testo di Terenzio Montesi per la Rivista “Buongusto” – autunno 2003)

 



Massimiliano Montesi
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