Han detto delle Marche: umanità e territorio culla di una civiltà

Comincia un viaggio.

Destinazione: il cuore e le opere della civiltà mezzadrile.

Una cultura rurale e collinare archetipo dell’economia circolare e rigenerativa con la casa colonica polifunzionale al centro. Scopriremo i suoi endemismi con l’ausilio, per iniziare, di alcuni pensieri contestualizzanti.

Penne illustri han detto di questa terra:

“(…) così benedetta da Dio di bellezza di varietà di ubertà, tra questo digradare di monti che difendono, tra questo distendersi di mari che abbracciano, tra questo sorgere di colli che salutano, tra questa apertura di valli che arridono (…)”
(dal discorso tenuto da Giosuè Carducci a Recanati il 29 giugno 1898 in occasione del 1° centenario della nascita di Giacomo Leopardi)

Un viaggio nelle Marche, non frettoloso, porta a vedere meraviglie
(Guido Piovene)

“….A figurarsi l’ Italia come una di quelle città medievali ove ai rioni si appiccava il nome dei mestieri o degli umori degli abitanti, la Marca la chiameresti ‘Contrada del silenzio’. E ci camminerebbe una gente senza frastuoni di suole grevi, né tanto scapestrare di voci. Buffa a suo modo: capace, se ti pesta un piede, di esigere seriamente che tu la ricambi nel pesto, per non rimanerti obbligata in nulla. Chè questo arreca, qui, un sottile fastidio, nel quale devi riconoscere il segno di una insofferente individualità. Nel restante gente di atteggiamenti e costumi non convulsionari ma pacati, di maraviglia lenta ma fervida, di non ingenui trasecolari, non perditesta ma di vigilante coraggio. Di pugno rado ma sodo, di riso non pazzo ma schietto, di canzoni se non litanianti, pure librate a mezz’aria, e a respiro fondo di cuore…”
(Dino Garrone da “Terra di Marche”)

Il volto più vero delle Marche, anche se il meno appariscente, è quello di una regione di laboriosa e virile solitudine, abitata da gente avvezza a fare i conti con se stessa, a non ammettere niente di grande, niente di straordinario in nessun fatto e in nessun uomo; un popolo, dunque, che la pratica quotidiana del mare e dei campi ha reso taciturno, appartato, schivo alle facili aperture, e tuttavia più incline alla malinconia che alla tristezza, più all’interrogazione che all’angoscia. Essere Marchigiani è un destino. Significa stare al mondo in modo tellurico e fantastico al tempo stesso. Aver sempre la necessità di scappare e sempre – sempre – patire la nostalgia ineludibile del ritorno. Significa avere la netta sensazione che la vita si svolga altrove, per poi scoprire che la si è persa in tutto ciò che si è lasciato. Significa rimanere incommensurabilmente soli in un deserto così somigliante al paradiso da confondere gli angeli nel loro volo.”
(Carlo Antognini)

Poi attingeremo dalle storie e dalle esperienze dei tanti marchigiani che hanno amato ed amano questa terra. Citarli tutti ora sarebbe impossibile, ma bisogna pur cominciare e lo faremo con Terenzio Montesi, regista, scrittore e giornalista che ha dedicato la vita alla riscoperta e al recupero delle tradizioni della sua terra.

“(…) perché già il paesaggio è memoria e opera di ingegno e arte (…)”
(Terenzio Montesi)

“(…) Basta guardare le colline della regione che ondulano tra valli segnate dai fiumi che scendono a pettine dal dorso appenninico al mare. Le geometrie dei filari, le querce a confine, i campi disegnati dai colori, nell’alternanza delle colture, l’orto e il frutteto, la casa polifunzionale al centro, con l’aia mattonata sul davanti. È l’ingegno che muove le amorose cure per la terra. Ecco il contadino artefice che manovra, in libertà, la gestione del microcosmo della ruralità (…)”
(dalla prefazione di Terenzio Montesi alla pubblicazione “Marche: l’Italia che fa”)

“(…) A guardare dall’alto le Marche, sorprende il disegno del paesaggio agrario, determinato dall’intervento dell’uomo rurale che l’ha inventato, disegnandolo secondo le proprie necessità (…)
(Da un articolo di Terenzio Montesi tratto dalla Rivista “Vie del Gusto”)

Massimiliano Montesi



Massimiliano Montesi
massimilianomontesi@yahoo.it
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