05 Ago I volti di Treia
Carlo Dìdimi e Dolores Prato, memorie di una città vincente.
Una cartolina da Treia, con tanto d’invito. Ma raccontare un paese racchiuso nel piccolo spazio sul retro dell’immagine-panorama riduce di molto le sensazioni che produce la visita e limita i ricordi che un quadro d’ambiente risveglia e anima.
Ti aiutano, è vero, gli spiriti guida che sono un tutt’uno con la città e balzano avanti a precedere e legittimare ogni discorso. Almeno due vanno evocati e chiamati con nome e cognome: Carlo Dìdimi e Dolores Prato.
Il primo, cantato da Giacomo Leopardi nell’ode “A un vincitore nel gioco del pallone”, è stato una celebrità treiese, conteso dalle squadre più forti d’Italia.
Il Poeta di Recanati ne esalta la forza e la bravura fino ad accendere la folla dello sferisterio.
“Te echeggiante arena e il circo, e te fremente appella ai fatti illustri il popolar favore…”
E ancora: “Era si valente in questo gioco che lasciò di sé lunga fama nella città nostra” (Speziali). Quando sulle arene romagnole le tifoserie vedevano un giocatore di classe menar la palla con stile e forza urlavano: “O sei tu il diavolo o Dìdimi”. Sì, era di Treia.
L’altro spirito guida è Dolores Prato che mirabilmente ha saputo raccontare la Treia della sua tribolata infanzia e la ribelle adolescenza racchiusa in un rigido collegio. Non si troveranno mai, in nessun altro documento, il volto e l’anima della città, fin nelle più minute e nascoste vibrazioni. Titolo del romanzo: “Giù la piazza non c’è nessuno”, ultimo verso di un gioco – filastrocca per aprire le settecentocinquanta pagine del libro.
Dolores iniziò a scriverlo quando aveva ottantadue anni; uscì da Einaudi in una impietosa riduzione, che pubblicò almeno un terzo del dattiloscritto quando ne aveva ottantotto e che venne stampato integralmente da Mondadori nel 1997, quando era già partita da questo mondo da quattordici anni e tre mesi. Bisogna leggere questo grande affresco, steso sul filo della memoria e guidato da una bambina illegittima che tutto vede, annota e giudica, per capire davvero chi sono i marchigiani.
È quella bambina a sostenere la scrittura dell’anima di quella anziana, di irriducibile indole e di profonda cultura, che ama Dante e Leopardi. È un miracolo mantenere il carattere espresso dalla piccola Dolores, con le torri, le chiese, le porte, i palazzi dei ricchi, il teatro, le piazzette, i vicoli con i gatti e i gerani. Raramente il concetto di ambiente, costume e società ha saputo ritrovarsi nelle pagine di un libro che registra anche il silenzio. Per raccontare la storia e dare il benvenuto al forestiero, Treia riceve nella piazzetta salotto, elegante e discreta, con il trecentesco Palazzo Comunale che fa da fondale, mentre le quinte hanno come riferimenti la Chiesa di San Filippo Neri, con all’interno le statue di Gioacchino Varlè, e il Palazzo dell’Accademia Georgica del Valadier.
A chiudere la scena una grande balaustra che si affaccia su un paesaggio incantevole, disegnata da Andrea Vici. Fin dalla prima metà del ‘700, l’Accademia ebbe gran risonanza per le ricerche e le sperimentazioni agronomiche svolte sul territorio, spinta dallo spirito illuminista che stava soffiando sull’Europa.
Venivano a Treia studiosi di ogni genere per apprendere e sperimentare. La città ha saputo conservare se stessa. Venite a visitarla la prima domenica di agosto, quando Treia si cala nell’involucro storico della sua vicenda.
Rivedrete i Dìdimi di oggi, che stringono il bracciale sulla spianata dello sferisterio con il tifo dei nobili che vengono dal Cassero, dei borghesi di Vallesacco, dei contadini che si appostano sul borgo e degli zingari che sopraggiungono dall’Ongravina.
Eppure oggi la città, che fruga nel suo passato alla ricerca di energie, vuole incontrare profeticamente il futuro. Ha troppe carte in mano per vincere la sua sfida e tanti campioni. Sul retro della cartolina bisogna pur scrivere che Treia è a 340 metri sul mare, che si è chiamata Montecchio per 1000 anni, che è stata fondata dai Sabini un paio di chilometri più a valle, che venne elevata a Municipio dai Romani, che vantò per lungo tempo potere e ricchezza.
I dolori vennero dopo, attorno al 404 d.C., quando i Goti di Alarico la distrussero in prima battuta e, in seconda, furono i Saraceni a violare le sue case e le mura di quattrocento anni dopo. L’inestinguibile voglia di esserci l’aiutò a risorgere.
Ma ecco un altro falco predatore, Re Enzo, figlio di Federico II, lo Svevo, che inutilmente, però, la cinse d’assedio. Ci riprovò un altro falco, Corrado di Antiochia, che però fu fatto prigioniero e ristretto nelle segrete del Cassero. Per la tenuità dell’aria, per l’abbondanza delle messi e per la bontà della gente fu contesa e maltrattata, come la palla di Dìdimi, dai Varano, dagli Sforza, dagli Aragonesi, fino ad assopirsi fra i pii possedimenti del Papa.
Ora vado a imbucare la cartolina.
Massimiliano Montesi (da un testo di Terenzio Montesi per la Rivista “Buongusto” – giugno 2004)
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