Il carradore

L’apetto scatta veloce sulla stradina battuta e s’arresta sull’aia.

Il trattore ansima rumorosamente sulla costa sotto la vigna. L’automobile è in città per le provviste di domenica. Il vecchio biroccio è sotto il capanno, malinconicamente in pensione da più di trent’anni. E i carradori?

Spariti. Una razza estinta per sempre. Erano i birocciai delle nostre parti.

120/130 facocchi, anche così venivano chiamati i carradori, disseminati in tutti i paesi a forte produttività agricola.

Non hanno lasciato eredi; l’abbandono dei campi e la meccanizzazione hanno bruscamente licenziato il carro tuttofare.

La consacrazione ufficiale, il bel francobollo del 1950, valore lire 60, ha avuto il sapore del necrologio. Affreschi romani riproducono le sembianze del carro; poeti e scrittori ne hanno cantato le lodi. I nostri avi ottocenteschi gli hanno affidato gli incarichi più vari, umili e solenni secondo le circostanze.

Ora che è sparito dalla terra, lo ritroviamo in cielo stilizzato nel segno vivissimo dell’Orsa Maggiore.

Ci voleva il lavoro di 2 mesi per fare un biroccio, il lavoro, senza cartellino da timbrare, di due cristiani. Il legno stazionava due anni all’aperto, per la stagionatura. Quercia, olmo, acacia, noce.

Massiccio e funzionale, solido e manovrabile, doveva pesare quattro quintali e mezzo. Durava una vita e oltre. Il costruttore doveva essere un gran tecnico.

Veniva studiata addirittura la natura del terreno per perfezionare il bilanciamento del carro, valutando i rapporti tra assale, il timone e le ruote. Antica, straordinaria, spettacolare la ferratura della ruota. Il grande cerchio, dilatato dal fuoco, mordeva il legno.

Tempi strettissimi, attimi. Tutti, donne e bambini compresi, a gettare acqua per il raffreddamento. Fumo e voci, un concitato andirivieni, ordini secchi. Un rito.

Il carro veniva dipinto con la tecnica del cartone forato. Decorazioni straordinarie, indelebili, sanguigne, di sant’antoni e di fiori, di paesaggi e rubiconde fanciulle.

Sulla fiancata il nome della ditta e quello della committenza e le voci…”costruì, fece, pitturò”. Che malinconia vedere ruote, gioghi, tavole e specchi nelle cantinette di certi neoricchi!

Massimiliano Montesi (da un testo di Terenzio Montesi per la pubblicazione “Marche: l’Italia che fa”)



Massimiliano Montesi
massimilianomontesi@yahoo.it
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